Uomini sull'Alpe. Seconda Parte. Racconto di caccia ed avventura nella Judicaria di Ennio Lappi
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- Category: Cultura
- Published on Monday, 05 February 2018 09:53
- Written by Ennio Lappi
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Parte seconda (parte Prima)
A passo lento, i cavalli risalivano indolentemente la pista che costeggiava il limpido e spumeggiante torrente Algone. Stenego, nonostante fossero partiti già da più di un'ora, sonnecchiava sulla sella, Martino lo seguiva e non aveva ancora profferito parola. Tormentava pensoso le redini della sua cavalcatura, non riusciva a capacitarsi del fatto che, nonostante la buona volontà dimostrata dai vicini di Stenico, vi fosse ancora molto astio da parte dei Blezi della Pieve di Sotto poiché questi, come pomposamente solevano puntualizzare, non perdonavano loro di essersi intromessi nella propria dispotica sovranità appropriandosi dei loro territori di caccia
Ogni comunità di quelle valli, dal momento che i buoni pascoli di montagna erano piuttosto scarsi, si era data da fare per assicurare al proprio bestiame, tanto bovino che ovino, la possibilità di alpeggiare, conquistando le poche zone adatte con ogni mezzo, anche con la forza. Erano perciò nate non poche dispute, non sempre risoltesi in modo pacifico, come era accaduto alcuni decenni prima quando, per il possesso dell'alpeggio di Movlina, si rischiò una sanguinosa battaglia tra i Blezi e gli uomini di Rendena. Egli ricordava bene, al tempo della sua infanzia, i filò invernali nel tepore della stalla. Sua madre filava ed ogni tanto masticava qualche corniola per far saliva, suo padre aggiustava gli utensili di casa o gli attrezzi di campagna e, seduto sullo sgabello della mungitura, il nonno raccontava spesso a loro, bambini dagli occhi assonnati, ma caparbiamente attenti per non perdere una sola sillaba, che in gioventù, quando era al servizio del Signor Bozo, aveva assistito al duello che l'accortezza del vescovo Eberardo e la sagacia del giudice Enrico, avevano escogitato per dirimere la questione e limitare al minimo lo spargimento di sangue tra le opposte fazioni.
Il vegliardo gonfiava ad arte i suoi racconti tanto che gli adulti, pur trattenuti dal rispetto per l'anziano, ogni tanto dovevano soffocare qualche risata, subito zittiti dai suoi risentiti rimbrotti. Comunque, la tenzone nella pozza di Movlina doveva essere stata veramente epica poiché fece cessare ogni controversia essendo stata interpretata come un "giudizio di Dio" e perciò infallibile. La vittoria arrise al campione del Blezo di Sotto e, per merito di questo, a tutta la sua Comunità, che si vide così riconosciuti per veri i confini pretesi.
I vicini di Stenico avevano però occupato la limitrofa Valle d'Agola dove, già da più di quarant'anni ponevano le loro malghe senza opposizione alcuna, ma, negli ultimi anni, i Blezi, tollerando sempre di meno la loro presenza, avevano iniziato ad inviare messi e rappresentanti allo scopo di reclamare i propri diritti sull'intera vallata con la giustificazione che, con il "Giudizio di Dio", si erano conquistati i diritti dispotici non solo su Movlina, ma anche su tutta la zona del Gruale e di Valagola.
I bleggiani non avevano bisogno d'altri pascoli, ma invidiavano la ricchezza di selvaggina della zona occupata dagli avversari e le trote, le rane ed i gamberi che prosperavano nel lago, tutte cose che avrebbero rappresentato una sostanziosa risorsa per i loro deschi, senza contare pelli e pellicce che sarebbero state usate per il vestiario e per rendere le case più confortevoli.
Era stato dunque inevitabile il ricorso al giudizio vescovile che si era risolto con la piena vittoria della Comunità di Stenico, nonostante che, contro la sentenza, fosse stato interposto appello all'imperatore Federico.
"Dovranno calmarsi per forza, adesso", borbottò Martino a mezza voce, e spronò per raggiungere il compagno che si era un poco avvantaggiato.
Giunsero, così, nei prati che inverdivano lo sbocco dell'ampio vallone incuneato, verso oriente, tra le impervie montagne. In essi, sparse qua e là, diverse pire da carbone fumavano placidamente, controllate dai carbonai che, scuri in volto, più per la fatica che per il fumo ed il sole, li salutarono con pacati gesti delle loro nere mani. Proseguirono a piedi per far rifiatare le cavalcature salendo verso i pascoli di Movlina che oltrepassarono nella mattinata, ammirando alla loro sinistra la ridente valle di Rendena sovrastata dall'imponenza dei ghiacciai. Risaliti in sella, cavalcarono a briglia sciolta e, in breve tempo, oltrepassarono il Passo del Gotro scendendo infine in Valagola.
La valle era splendida ed abbracciava verdeggiante l'azzurro del lago sulla cui riva sorgeva la malga del signor Bozo. Più in là se ne scorgevano altre, distanziate tra di loro: quella di Wasto, quella di Lazaro e, più in alto, quella degli uomini di Melono.
Pietro, il capomalga, si fece sull'uscio all'abbaiare dei cani,
"Salute", disse gioviale, "Vi aspettavamo.... Con tutto il lavoro che c'è qui..." e chiamò a gran voce Bertino da Ajrone, il famiglio che da anni custodiva le malghe di quelli di Stenico.
"Òccupati dei cavalli e poi porta qualcosa da mangiare."
"Grazie," rispose Stenego "lo stomaco reclama"
"Anche il mio " fece eco Martino prendendo la ciotola di latte che Pietro gli porgeva, "come vanno le cose qui?"
"Tutto tranquillo, tranne una vacca caduta in un crepaccio e due pecore sbranate dal solito orso."
"Diavolaccio, me lo sentivo, di certo è quello dell'anno passato e dobbiamo darci da fare se non vogliamo perdere altre bestie. Mi sono portato Stenego apposta per cercare di liberarcene se si fosse fatto vivo, faremo una trappola e vedrai che lo sbraniamo noi questa volta".
"Hai notizie fresche?", il malgaro sembrava preoccupato e non per l'orso.
"Di chi?" chiese Martino con aria volutamente distratta.
"Dai, non scherzare..... Di quelli dell'altra parte della Sarca."
"Ah!.... Mah!... Sembrano rassegnati, ma non sono tranquillo, per fortuna il signor Vescovo ha parlato chiaro: ci difenderà da ogni sopruso. Ora mangiamo!" e si sedette al modesto tavolo imitato dai compagni.
Il pasto fu frugale: polenta, formaggio e funghi, ma mangiarono tutti di gusto parlando del più e del meno.
"Animo Pietro," disse Stenego, "da domani la dieta sarà più variata..." ed ammiccò ridendo a Martino; pensava alle trote del lago ed alle rane di cui era sempre andato ghiotto. Terminato il pasto si alzarono da tavola, a pancia piena si ragionava meglio. Martino si rivolse a Stenego:
"Ora chiama il Giovan della Romana ed il Negro del Moro"
"Bene.... Vado e torno."
"Ah... Aspetta! Vedi se può dare una mano anche il Banal."
Poco tempo dopo, uno dietro all'altro, risalivano verso i mughi che infoltivano la parte settentrionale della vallata. Avevano in animo di scavare una trappola lungo il tracciato che l'orso era solito battere nelle sue scorribande notturne e così fecero, dopo aver raggiunto il posto adatto. Lavorando di buona lena, approntarono una buca profonda quattro passi e larga quasi tre; sul fondo vi conficcarono diversi pali tagliati sul posto ed appuntiti con cura, quindi, per mascherarla, coprirono il tutto con un sottile ordito di ramaglie.
"Vai a prendere l'agnello!" ordinò Martino al Negro e questi partì di corsa tornando di lì a poco con l'animale sulle spalle. Fece un cappio ad una cordicella che il Giovan gli porgeva e lo legò davanti alla trappola.
La povera bestiola si accucciò subito smarrita e tremante, tra non molto sarebbe scesa la sera ed avrebbe incominciato a belare disperatamente cercando la madre. Quale richiamo sarebbe stato più allettante per un orso affamato?
Tornarono verso la malga, ma, mentre riattraversavano la fitta mugheta, l'occhio esperto di Stenego, individuò un passaggio di coturnici.
"Andate avanti," disse agli altri, "vi raggiungo più tardi." Infilò una mano nella bisaccia e ne cavò un pugno di filamenti che sembravano di canapa, ma non lo erano: erano crini della coda del suo cavallo. Certo che Astro, il fido destriero stellato in fronte e balzano da tre, non era sembrato molto contento all'atto del prelevamento ed aveva perfino tentato di scalciarlo, ma lui, che lo conosceva bene, non si era lasciato sorprendere. A cosa gli servivano? A tendere i lacci per i "cotorni". Era una tecnica antica, tramandata dai suoi avi di padre in figlio con la raccomandazione che i crini impiegati fossero prelevati da un maschio, perché questi orinando, al contrario delle femmine, non li poteva bagnare, e perciò i filamenti della coda, rimanendo asciutti, si rivelavano notevolmente più resistenti.
"Cervelli fini i miei antenati..." pensò mentre tendeva il primo lacciolo.
Aveva intrecciato il lungo crine con un nodo scorsoio, fissandone l'estremità alla base di un piccolo arbusto, aveva quindi allargato il cappio dall'altra parte appoggiandolo a cerchio, su due rametti di pino infissi nel terreno ai lati del passaggio. L'uccello, pedonando lungo il consueto tratturo, vi sarebbe entrato con il capo e, procedendo in avanti, si sarebbe impiccato da solo nel tentativo di liberarsi.
Allo stesso modo approntò altri sette o otto "lazi" e quindi, fischiettando allegramente, si avviò per rientrare. Ormai era quasi buio ed aveva la sensazione che, all'indomani, la cacciagione non sarebbe mancata sulle loro mense. Ora sentiva distintamente il gracidio delle rane che saliva dalle rive del lago ed in cuor suo si rallegrò affrettando il passo; dopo cena si sarebbero divertiti, era un maestro anche nella cattura dei gustosi batraci.
Difatti nel buio della sera avanzata, mentre in lontananza echeggiavano i lamentosi belati del povero agnello che, suo malgrado, stava egregiamente assolvendo il proprio compito, Martino, Negro, Banal ed altri che si erano aggiunti alla brigata, accesero alcune torce e si avviarono silenziosi verso la riva del lago. L'acqua era poco profonda e le ninfee occhieggiavano splendide tra le rade canne. All'improvvisa luce, le bestiole rimanevano abbagliate e, disorientate, non riuscivano a sfuggire alla svelta mano di Stenego che, con i calzoni rimboccati fino alle cosce, sguazzava allegro qua e là in una goffa ed esilarante, ma efficacissima, danza.
In poco tempo, il sacco che teneva con la mano sinistra, ne contenne quasi un centinaio:
"Sufficit", esclamò trionfante, "Habemus delicias, abbiamo le delizie del palato!" e balzò fuori dell'acqua, accolto dagli amici con grandi manate sulle sue poderose spalle.
"Domani sera faremo festa, passate parola anche agli altri." E tra lazzi e risate ognuno si ritirò per coricarsi.
La notte trascorse tranquilla, ma, appena prima dello spuntar dell'alba, nella valle echeggiò sinistro un urlo di belva ferita: l'orso era caduto in trappola. Stenego balzò dal giaciglio e si precipitò alla porta della capanna, ma sull'uscio si scontrò con Martino che ruzzolò a terra tenendo comicamente strette nelle mani le brache in cui gli era riuscito di infilare una sola gamba.
"Porc... Ma che fai... Dove vai..." sbottò con voce assonnata non sapendo se arrabbiarsi o ridere della situazione, "non scappa mica ormai".
Anche questo era vero, l'orso non sarebbe scappato più e soprattutto non avrebbe più ucciso i loro armenti. Scoppiarono a ridere fragorosamente mentre sopraggiungevano anche gli altri. Si armarono con calma, dal momento che la prudenza non sarebbe mai stata troppa con certi bestioni e, dopo alcuni minuti, si avviarono verso il punto da cui provenivano i sempre più fievoli lamenti. Giunsero in breve alla trappola, la belva non era grossissima, ma incuteva, anche così infilzata, una notevole soggezione a tutti.
Stenego e Martino impugnarono le loro lance e diedero il colpo di grazia al signore delle selve. Fu allora che tutti si sentirono improvvisamente scoppiare d'allegria e, per diversi minuti, si abbandonarono ad una sfrenata sarabanda attorno alla buca. Saltavano, ballavano, cantavano, esorcizzando in tal modo l'atavica paura dell'ignoto in cui era inserita la loro vita di montanari.
Esaurito il festeggiamento, incominciò il pesante lavoro di recupero della carcassa, e ci volle molta fatica affinché, con l'aiuto d'alcune robuste funi, si potesse issarla fuori della buca. L'agnello era indenne e non sembrava aver patito più di tanto le terribili ore di quella notte. Quando si ricordarono di lui, ed il Negro venne a liberarlo, si avviò trotterellando incerto verso il gregge che pascolava non molto lontano.
"Non vorrei essere stato al suo posto."
"Eh... Vita da bestie..." gli fece eco il Banal e sghignazzarono rumorosamente dandosi grandi manate sulle spalle. Fortunatamente, Pietro aveva inviato un famiglio con due cavalli che furono impiegati per trascinare il plantigrado nello spiazzo della malga dove sarebbe stato scuoiato e quindi saponificato.
Sulla via del ritorno, Stenego non perse l'occasione di visitare i "lazi" che aveva teso la sera precedente e, come aveva previsto, recuperò una mezza dozzina di grassi volatili. Li appese alla cintola e si affrettò a raggiungere la comitiva che aveva bisogno anche del suo aiuto. Erano felici, oltretutto si potevano dividere le 20 marche della taglia che la Comunità pagava a chi uccideva una belva che poteva recar danni seri alle bestie ed anche ai cristiani e, mentre raggiungevano la spianata di fondovalle, incrociarono gli altri pastori che stavano avviando gli armenti al pascolo.
"Evviva... Evviva..." gridavano festosi agitando in alto i loro bastoni.
Stenego si sentiva orgoglioso, Martino ancor più di lui.
Raggiunta la malga, riposarono soddisfatti per una buona oretta, finché tutti gli uomini non furono di ritorno dopo aver condotto il bestiame nelle zone ove solevano pascolare in quel periodo. Allora, di buona lena, lavorarono insieme per scuoiare l'orso, la cui pelliccia avrebbe fruttato una bella somma, e per sezionarne la carcassa.
Erano così assorbiti dalla loro opera, che non si accorsero dell'avvicinarsi di alcune persone che, con fare noncurante, provenendo dal Gotro, scendevano nella loro direzione; d'altronde nemmeno i cani, rimpinzati com'erano delle carni della belva e sonnecchianti all'ombra dello steccato, avevano avvertito la loro presenza.
All'improvviso, l'urlo di battaglia risuonò alto nell'aria ancor frizzante del mattino ed i Blezi attaccarono da tutte le parti. Martino non ebbe neppure il tempo di girarsi che fu colpito alla nuca da una pietra scagliata con forza e stramazzò tramortito al suolo. Negro fu subito sopraffatto da tre uomini che lo legarono come un salame allo steccato. Stenego che, per tendere la pelliccia ad asciugare al sole, stava conficcando al suolo un robusto palo, riuscì a difendersi per alcuni minuti, menando grandi fendenti a destra e a manca. Ne mise a terra diversi, ma i nemici sopraggiunsero numerosi e, urlando, lo circondarono con le loro lance. Ansante, si guardò allora intorno: anche tutti gli altri erano stati ridotti all'impotenza; contò velocemente gli assalitori erano certamente più di un centinaio e, mentre veniva legato con gli altri nel recinto delle pecore, si rese conto che la sorpresa ed il numero degli attaccanti aveva perlomeno evitato che fosse sparso del sangue.
"Bella consolazione," mormorò sarcastico guardando Martino che, legato un po' più in là, si stava, poco a poco, riprendendo dal brutto colpo ricevuto e vaneggiava alquanto farfugliando un po' in latino ed un po' in idioma teutonico, come gli capitava quando alzava il gomito. Osservò gli avversari e ne riconobbe parecchi; il capo sembrava Ribaldino da Cares che era seguito come un'ombra da suo fratello Oto, c'era Gato figlio di Vito da Baono, c'era Ferario da Tignarone e Trentino da Diureio, poi Buonsegno il figlio del Zambon ed il Blanco della Maria da Cilà. Riconobbe anche Vitale del Manfredino e Villano da Villa, con il Giovan del Warimberto da Bono. Davanti a lui poi, strideva il ghigno sdentato del Nigro del Pelegrino da Festo, mentre la crapa pelata e sudata di Orlando del Blezo quasi lampeggiava dei riflessi solari.
Era un'orda barbarica.
Ad un ordine del capobanda si precipitarono urlando nelle capanne e nelle "casère" rovesciando e sfasciando tutto ciò che potevano. Per prima cosa, con le lance, perforarono le "caldère", i grandi recipienti di rame colmi del latte munto la sera avanti. Il bianco alimento, così prezioso per la loro povera economia, zampillava dai fori spargendosi a terra in larghe pozzanghere, mentre i Blezi, come invasati dal demonio, vi sguazzavano dentro con maligna soddisfazione. Di seguito spaccarono con le asce le basi delle scaffalature sulle quali le forme di formaggio fresco erano state sistemate per l'asciugatura e la stagionatura, facendole rotolare a terra; le più fresche si spaccarono all'impatto col terreno, mentre le altre furono devastate a colpi di spada e d'accetta. Si riversarono quindi all'aperto, aprendo i recinti dei maiali e degli altri animali da cortile, facendoli fuggire terrorizzati a colpi lancia e di freccia e così fecero con i cavalli, i muli e le vacche che capitavano a tiro. Insomma, un disastro.
Ribaldino si avvicinò a Martino e lo prese per i capelli sollevandogli la testa che teneva a ciondoloni,
"Spero che abbiate capito, siamo stati chiari vero?", sibilò alitandogli sul volto tutta la sua arroganza di vincitore, "non abbiamo voluto farvi troppo male ed adesso vi lasceremo andare, ma se provate a ritornare vi ricamiamo la pancia a tutti !"
Martino sostenne lo sguardo del nemico; non gli faceva certo paura.
"Bada Blezo, ti...", la punta dello stiletto gli si conficcò nella pelle della gola facendo uscire alcune gocce di sangue.
"Non ho sentito, parla più forte" lo beffeggiò l'altro tra le risate dei suoi compaesani.
Martino fu raggelato, meglio tacere e non fare l'eroe, il Signor Vescovo gliela avrebbe fatta pagare a tutti, e a caro prezzo. Chinò il capo in segno di resa.
Oto gridò: "Liberateli ed assicuratevi che questi straccioni se ne tornino al loro paese!" Così fu fatto e la mesta truppa si avviò sconsolatamente verso il Gotro, seguita da una decina di cavalieri che, pungolandoli con le loro lance, li costrinsero a salire quasi di corsa
"Ve le aven ben date seche stavolta, vi abbiamo strigliato a dovere...", gridavano beffeggiandoli e ridevano e li canzonavano. Smisero solo quando furono in vista del passo; allora voltarono i cavalli e, sempre ridendo sguaiatamente, si rituffarono nel bosco.
Gli stenicensi rimasero impietriti a fissare il punto dove i nemici erano spariti poi, quando anche l'eco delle loro risate si dissolse tra gli alberi, si buttarono sfiniti nell'erba e per alcuni minuti si udì solamente l'ansare dei loro respiri affannosi. Nessuno osava guardare l'altro tanta era l'amarezza e la vergogna, non tanto per la sconfitta patita, poiché gli avversari avevano attaccato con forze nettamente preponderanti per numero ed armamento, ma piuttosto, per essersi lasciati sorprendere come pollastri.
"Eravamo così contenti stamani", disse piano il Banal a testa bassa.
Nessuno rispose.
Martino si rivolse a Pietro: "Forza, dobbiamo radunare le bestie che sono su questo versante della valle prima che venga sera.... Vediamo di salvare il salvabile..." ed allargò le braccia scuotendo sconsolatamente il capo.
Si alzarono tutti tranne Stenego che rimase seduto, fissando il vuoto con aria assente, tormentando nervosamente con le dita un laccio dei suoi calzari.
"Forza," ripeté Martino scuotendolo con impazienza, "non farmi bestemmiare anche tu adesso."
Barcollava. Non aveva ancora assorbito del tutto il colpo ricevuto.
"Vado... Vado..." rispose alzandosi e, di malavoglia, si avviò dietro agli altri.
Impiegarono due ore buone per "salvare il salvabile" ed a sera avanzata, non avevano recuperato nemmeno la metà degli armenti.
"Andiamo valà," disse Pietro, "ormai è andata così. Ci accamperemo sotto al Doss dei Cavai per stanotte."
Fu in quel momento che Stenego si accorse di non avere più l'amuleto portafortuna che Alegra gli aveva donato quando era partito con il signor Alberto per l'Allemagna, era una cosa preziosa per lui, lo aveva lasciato nella capanna con le sue cose ed ora, all'improvviso, gli sembrava di non poterne fare a meno, ma era un pretesto e lo sapeva bene.
"Il mio amuleto... le mie armi, non posso rientrare in paese senza di loro!" Fece alcuni passi in qua ed in là come una pecora sbandata, poi disse risoluto:
" Io torno indietro .... Andate voi, io non posso sopportare quest'onta, non potrei tornare a casa e guardare negli occhi i miei figli sapendo di essere stato così codardo".
Martino lo prese per un braccio, "Sei pazzo... Ti ammazzano, te lo hanno detto..."
"Sarà quel che sarà amico, io vado a riprendermi la mia roba"
"Allora vengo anch'io, testa dura"
"No,", disse piano Stenego mettendogli le mani sulle spalle, "non ti sei ancora ripreso e mi saresti più d'impiccio che d'aiuto, ma ti ringrazio lo stesso. Va con loro, io cercherò di raggiungervi sulla strada di Dalgone appena potrò."
E partì di corsa, senza un saluto, lasciando tutti esterrefatti.
Mezzora dopo era in vista della malga, era già notte da un po', ma il tempo era bello e tra poco sarebbe sorta la luna, oltretutto aveva gli occhi come i gatti e vedeva al buio quasi come di giorno. I Blezi si erano accampati e non si aspettavano di certo sorprese, perciò festeggiavano la vittoria con i viveri e le prede di caccia, trovati nella dispensa di Pietro. All'improvviso gli tornarono in mente le rane e la rabbia traboccò,
"Per non contare i cotorni..." pensò furente e diede una pedata ad un larice facendosi anche male ad un piede; imprecò tra i denti.
"Mi devo calmare o qui finisce davvero male." La saggezza incominciava a tornare.
Si sistemò alla meglio tra i mughi, doveva aspettare che si fossero addormentati per tentare di penetrare nell'accampamento, ma le ore passarono e la festa continuò fino a tarda notte; cantavano e bevevano attorno a tre o quattro fuochi, rievocando la giornata e le loro "valorose" gesta. Chiuse gli occhi cercando di dormire un poco, avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze ed oltretutto era digiuno dalla sera prima.
Si appisolò con la testa sulle ginocchia dormendo un paio d'ore e si svegliò di soprassalto quando un gufo reale, a pochi metri da lui, urlò al cielo il suo verso. Guardò le stelle, doveva essere quasi l'alba ormai.
"Questo è il momento" si disse e, piegato verso terra, si avvicinò silenzioso alla malga.
Giunto ad una cinquantina di passi dalla spianata, sentì il russare di diversi uomini che, vuoi per il caldo, vuoi per il vino bevuto, si erano coricati sull'erba. Avanzò con circospezione verso la capanna, i cani lo riconobbero e non si mossero, latrando sommessamente e dimenando le code.
"Questa è fortuna" mormorò tra se, e ringraziò la sua buona stella.
La porta era aperta e vi si affacciò, i raggi della luna che penetravano all'interno gli consentirono di scorgere parecchi uomini che ronfavano beati e tra questi anche il Ribaldino.
"Ah, il cane", pensò stringendo i denti, "si è sistemato proprio nel mio posto."
In punta di piedi entrò e, piano piano per non far rumore, recuperò la sua bisaccia che non era stata toccata perché seminascosta sotto le assi del giaciglio, ma in quel momento l'uomo fece un movimento nel sonno e Stenego, trasalendo, urtò una suppellettile posta su una mensola. Riuscì a prendere al volo la scodella di legno che cadeva, ma il Blezo si svegliò.
Lesto e silenzioso come un felino, il nostro gli tappò la bocca con la mano sinistra, mentre gli metteva sotto la gola la tagliente lama del suo coltello.
"Zitto, che ti ricamo io adesso!" gli sussurrò all'orecchio mentre roteava intorno lo sguardo per assicurarsi che gli altri non si fossero svegliati.
Ribaldino aveva gli occhi fuori delle orbite per la paura.
Che fare? Rimase un attimo indeciso, ma un'idea improvvisa lo folgorò.
"Dammi il corno".
L'altro scosse freneticamente la testa in segno di diniego e cercò di liberarsi, ma bastò una lieve accentuazione della pressione della lama sulla gola, che subito indicò con gli occhi il suo sacco che giaceva a lato del letto. Stenego lo colpì con il taglio della mano appena sotto l'orecchio ed il Blezo tornò spedito nel mondo dei sogni.
Frugò con circospezione nel sacco: c'erano parecchie monete d'oro, ma lui non era un ladro, avrebbe certamente avuto piena giustizia dal vescovo ed anche il giusto indennizzo con gli interessi, ma quello che cercava era tutt'altra cosa e la trovò subito: aveva in mano il corno del re delle rocce.
Era la metà dell'eccezionale trofeo di un rarissimo esemplare di camoscio albino che viveva sulla Montagna dei Camosci e che la tradizione popolare indicava come la reincarnazione di un antico e valoroso guerriero ghermito dalla morte bianca mentre cercava di raggiungere il luogo, presso la vetta di quel monte, dove si credeva fosse custodito un prezioso tesoro.
Lo splendido animale, divenuto leggendario, fu oggetto di spietata caccia da parte dei cacciatori della Judicaria, ma, con grande abilità e sagacia, seppe sottrarsi a lungo a tutte le insidie finché, pressato da più parti da molti uomini e spaventato dai loro cani, evitò per l'ultima volta l'ormai certa cattura precipitandosi in un inaccessibile canalone nei pressi della Forcolotta di Jon. Per molto tempo si cercò invano di recuperarne le spoglie, finché l'impresa riuscì ad un valoroso cacciatore di Tignerone che ne riportò a valle il trofeo tra lo stupore e l'ammirazione di tutta la comunità del Blezo di Sotto. Le due corna furono separate ed ornate con oro ed argento e furono affidate alla custodia del capocomune che le conservava gelosamente come portafortuna per tutta la popolazione. Ormai da decenni era consuetudine che quando gli uomini intraprendevano un'impresa che, in pace o in guerra, comportasse delle incognite o dei pericoli, uno dei due corni fosse affidato al capo della spedizione, confidando che ben presto la sua magia avrebbe fatto tornare tutti, sani e salvi, alle loro case.
Che idea. Avrebbe mandato i Blezi su tutte le furie e lo smacco inferto, avrebbe ripagato lui e la sua gente per quello che avevano dovuto subire il giorno precedente. Mise il corno nella bisaccia e, già che c'era, prese anche le sue armi, riguadagnando l'uscita.
Attraversò con circospezione la spianata, ma l'urlo del Ribaldino lo fece scattare come una molla verso il recinto dove stavano i cavalli. Balzò sul primo che gli capitò a tiro e spronò alla disperata, mentre l'accampamento era già in subbuglio.
Galoppò ventre a terra verso il passo, ma subito sentì dietro di sé le grida degli inseguitori che non avevano di certo perso tempo. In un battibaleno fu fuori del bosco irrompendo in uno spiazzo erboso argentato dalle prime luci dell'alba: in quel punto confluiva il sentiero che proveniva dalla valle di Nardis.
Nella concitazione del momento non aveva pensato ad altro che a fuggire tentando di raggiungere al più presto i suoi compaesani, ma adesso si rendeva conto che, anche se vi fosse riuscito, il soverchiante numero degli avversari avrebbe avuto agevolmente ragione di loro e, questa volta, sarebbe scorso anche parecchio sangue. Tirò con forza le redini del cavallo e questi, nitrendo, s'impennò scartando verso sinistra; scalciò con i talloni nei fianchi dell'animale e questi ripartì come un fulmine nella direzione di Nardis.
Non erano trascorsi nemmeno un paio di minuti, che un nutrito drappello di cavalieri Blezi giunse al bivio, ma non erano veloci come il nostro ed alcuni di loro tenevano alta una torcia per illuminare la strada. Tirarono diritti verso il Gotro, certi di trovare gli uomini di Stenico accampati nella valle di Nambi, non molto al di sotto della loro malga Movlina, e con loro anche colui che cercavano.
Stenego, nel frattempo, galoppando come un forsennato, giunse in breve tempo nella piccola valle di Nardis ed inoltrandovisi, costeggiò la riva destra dello splendido laghetto, circondato di rossi cespugli fioriti, che essa conteneva come uno scrigno. Saltò da cavallo e, dal momento che ora non poteva più servirgli, con una manata, lo allontanò rendendogli la libertà. Sulla sua destra il fianco della valle era ripido e cosparso di spesse macchie di pino mugo e, in alto, l'incerta luce dell'alba lasciava intravedere una sella erbosa: era il valico che intendeva raggiungere.
Rimase in ascolto con il cuore in gola. Silenzio.
"Hanno abboccato," mormorò piano, "per ora sono in salvo."
Ma sapeva bene di avere poco vantaggio, in breve sarebbe stato giorno ed il trucco immediatamente scoperto, perciò s'avviò senz'altro indugio, quasi a passo di corsa, risalendo la costa tra i mughi.
Procedette faticosamente per quasi mezz'ora, aiutato da vaghe tracce di selvatici, fermandosi di quando in quando per tendere l'orecchio verso la valle, ma l'unico rumore che si udiva era il gorgoglìo del ruscelletto che, scendendo dalle soprastanti vedrette, alimentava il laghetto di Nardis.
Giunse così al valico. Un giovane camoscio, disturbato durante la sua prima colazione, fischiò inerpicandosi con plastici slanci verso la Pala dei Mughi, ma il fuggiasco non gli badò e, con circospezione, si affacciò sul versante opposto. Ormai era giorno, davanti ai suoi occhi si apriva la Val di Sacco ed egli sapeva che, discendendola, sarebbe potuto sboccare poco a monte del pascolo di Nambi, vale a dire circa nel punto ove prevedeva che i suoi amici si sarebbero dovuti trovare a quell'ora. In tal modo sarebbe stato certamente in salvo contando anche sull'aiuto che, in caso di necessità, gli avrebbero fornito i "carboneri" della Val di Dalgone. Osservò attentamente i dintorni spingendo lo sguardo il più lontano possibile nella direzione che intendeva prendere e, in una vasta radura, i suoi occhi acuti individuarono subito un paio di marmotte intente a procurare cibo per i loro piccoli che, giocando tra loro, saltellavano in prossimità di una delle imboccature della loro tana, mentre, poco più in là, tra i radi cespugli, un magnifico capriolo annusava il vento, ma sembrava tranquillo, erano segni evidenti che nessun uomo si trovava in zona.
Rassicurato, discese a balzelloni fin sul fondo della vallata raggiungendo il sentiero che imboccò con il cuore più leggero, ma non aveva percorso che due o trecento passi che un lieve e lontano rumore lo fece arrestare improvvisamente. Si acquattò tra i cespugli e sbirciò ansiosamente tra le fronde: incolonnati l'un dietro l'altro, molti uomini percorrevano il sentiero che proveniva da Movlina ed in meno di dieci minuti sarebbero giunti sul suo sentiero. Scattò in avanti, doveva anticiparli prima che gli avessero tagliato la strada, ma un lontano abbaiare di cani, proveniente dalla valletta che scendeva a Nambi, lo impietrì.
"Sono perduto!" Di colpo aveva capito: aveva troppo presto cantato vittoria nella sicurezza effimera di aver gabbato i Blezi ed invece questi avevano volutamente ignorato la direzione da lui presa al bivio del passo di Valagola e, mentre parte di loro aveva preso il sentiero che, da Movlina aggirava la Pala dei Mughi, portandosi sul Prato Fiorito, alcuni altri, a cavallo, avevano velocemente raggiunto la loro malga prendendo con loro alcuni segugi e portandosi quindi allo sbocco del sentiero della Val di Sacco. Certamente, i rimanenti avrebbero seguito con comodo le sue tracce al lago di Nardis ed al valico.
"Mi sembrava troppo bello, troppo facile", disse tra sé ed il primo impulso fu quello di cercare un nascondiglio, ma scartò subito l'idea: i cani lo avrebbero scovato in poco tempo. D'altra parte non poteva nemmeno tagliare a sinistra verso la Busa delle Gere, perché ormai i nemici erano troppo vicini all'imbocco di quel sentiero che iniziava quattro o cinquecento passi più a valle. Gli balenò un'ultima disperata possibilità.
...poco più in là tra i radi cespugli, un magnifico capriolo annusava il vento, ma sembrava tranquillo...
(disegno dell'autore)
"El Bus de la Regina!" esclamò trasalendo, dandosi una manata sulla fronte. Istintivamente guardò in alto: la valle era delimitata verso levante da una parete rocciosa che s'innalzava quasi verticale declinando verso sera. Tutto il suo profilo era merlettato come un pizzo prezioso. Subito dopo l'inizio della cresta, un arco di pietra incorniciava un'apertura, come una gran finestra, dalla quale occhieggiava l'azzurro. A dire il vero non era un luogo molto attraente perché in tutto il territorio circolavano strane storie di streghe e folletti malvagi che, proprio sotto quell'arco tenevano prigioniera la regina della montagna, tanto che la gente che passava nei paraggi evitava persino di rivolgervi lo sguardo, nel timore di chissà quali maledizioni, ma se c'era qualcosa che al nostro non mancava era il coraggio e lui, per vari motivi, c'era andato altre volte. La natura, bizzarra e provvidenziale, gli forniva ora la possibilità di uscire da quella situazione veramente compromessa, dal momento che il passaggio era praticabile, seppure con difficoltà, su entrambi i versanti.
"Che la Santa Vergine mi assista" mormorò facendosi velocemente il segno della croce e, fatto un rapido dietro front, partì di scatto come una delle sue frecce.
Risalì la valle all'incirca fino al punto in cui vi si era immesso provenendo dal passo di Nardis, quindi piegò a destra verso il ghiaione della Busa di Sacco. Cercava di tenersi piegato per sfuggire alla vista dei nemici i quali, salendo dal basso, erano ancora coperti dalle gibbosità del terreno.
"Tra poco mi vedranno", ansimò mentre attaccava il ghiaione, "Se arrivo alle roccette i cani non mi potranno seguire".
Difatti, di lì a poco, i segugi sbucarono dal sentiero, seguiti dai primi Blezi che non tardarono ad individuarlo mentre si arrampicava già sulle rocce che lui conosceva bene; man mano che arrivavano anche gli altri, se lo indicavano uno con l'altro con gesti di rabbia uniti ad imprecazioni che giungevano fino a lui smorzate dalla distanza.
Stenego non si fermò certo ad ascoltare, saliva muovendosi con sicurezza, ma sapeva che doveva affrettarsi; forse i più coraggiosi tra i nemici lo avrebbero seguito o, come riteneva più probabile, Ribaldino si sarebbe limitato a lasciare un drappello di guardia per impedirgli di tornare indietro. Di certo, tutti gli altri si sarebbero precipitati sul sentiero delle Gere per tagliargli la strada.
Velocemente, attraverso un paio di cenge intervallate da alcuni non difficili canalini, guadagnò il magnifico arco. Sbuffando come un vecchio mantice per l'ansia e la fatica, si fermò un attimo per riprendere fiato e per ispezionare l'altro versante della montagna, sapeva fin troppo bene che la discesa da quella parte era pericolosa, ma doveva affrettarsi calando lungo il crinale della montagna fin nella Busa delle Gere, dove avrebbe ritrovato il sentiero che proveniva dalla Valle di Sacco, ma doveva arrivarci prima dei suoi nemici, altrimenti non avrebbe più avuto scampo. Osservò i loro movimenti guardandosi alle spalle, quelli con i cani ritornavano sui loro passi, e certamente avrebbero preso la direzione che egli aveva previsto ed anche temuto. Si dimostravano più scaltri di quanto aveva previsto.
Ripartì scegliendo i passaggi con molta attenzione, aveva un certo vantaggio e non c'era la necessità di rischiare più di tanto. In meno di mezz'ora era sul sentiero delle Gere ed i Blezi non si vedevano ancora. Si lanciò di corsa nell'ampia conca detritica, attraversandola verso meridione e raggiungendo in breve il passo che ne consentiva l'uscita verso il Vallone.
"Strano," si disse con sospetto, "ora dovrebbero essere in vista, ma invece non si sente nemmeno l'abbaiare dei cani".
Gli inseguitori se l'erano presa con comodo, infatti, Ribaldino da Cares aveva inviato una decina di uomini con i cani sul sentiero delle Gere, mentre lui ed il grosso dei suoi avevano raggiunto di corsa il fondovalle dove avevano lasciato i cavalli e con questi, a spron battuto, si stava portando a bloccare l'uscita del Vallone.
Principiando dai verdi e pianeggianti pascoli di fondovalle dove parecchie famiglie vivevano facendo carbone e "pegola", il Vallone saliva tra ripidissimi versanti fino ad una depressione circolare detta Busa Tonda ed in quel punto terminava, chiuso da una strapiombante parete alta più di cento passi, in cima alla quale si distingueva uno stretto intaglio a V: la Forcolotta di Jon.
Stenego si aspettava di sentire l'abbaiare dei cani ed invece sentì il galoppo dei cavalli; vide i Blezi disporsi trasversalmente rispetto alla valle ed avanzare con tranquillità, da quella parte non sarebbe passato di certo. Decise quindi di giocare l'ultima carta che gli rimaneva in mano: la scalata alla Forcolotta.
Proseguì in orizzontale tenendosi in quota sopra la Busa Tonda, sfruttando allo scopo alcune strette cenge praticate dai soli camosci; per sua fortuna molti mughi crescevano abbarbicati sugli strapiombi, insinuando le loro radici nelle strette fessure della roccia stratificata ed i loro rami pendenti sul vuoto gli consentirono una traversata, se così si può dire, meno pericolosa.
Giunse così, tra un'Avemaria ed un'imprecazione, alla base della parete che chiudeva la vallata. Sembrava inaccessibile anche per lui, ma sapeva che Widone, il suo vecchio padre, l'aveva superata in diverse occasioni e l'aveva descritta talmente tante volte nei filò invernali che era come se l'avesse salita lui stesso. A dire il vero, ed un brivido gli corse lungo la schiena, lui aveva sempre ascoltato quei racconti con una cert'aria di sufficienza, pensando che nel racconto vi fosse molto d'inventato. Quelle rare volte che, tra il serio ed il faceto, si era permesso di avanzare qualche osservazione, il vecchio se l'era presa male interrompendo il racconto con un "Ma tasi codèr" che non ammetteva repliche. Quello era il momento di accertare se il padre aveva detto la verità.
I Blezi a cavallo apparvero all'inizio della Busa, proprio mentre gli altri, con i cani, apparivano al passo delle Gere. Stenego iniziò la salita imboccando il canalino iniziale, una stretta fessura che lo proteggeva dall'avvistamento degli inseguitori. Sorrise sollevato.
"Questa è una vera manna, quando mi vedranno sarò fuori tiro." Infatti, egli temeva non già di essere seguito, dal momento che non credeva esistesse un Blezo capace di seguirlo su quelle rocce, ma che potessero avvistarlo allo scoperto ed in tal caso sarebbe stato esposto al tiro d'archi e balestre.
Uscì dalla spaccatura della roccia parecchi metri più in alto e non arrischiò neppure uno sguardo verso la valle, avanzò con calma sfruttando i buoni appigli con la ferrea stretta delle sue poderose mani. Venti passi più in alto incontrò una cengia erbosa e la percorse con grande attenzione per non scivolare; al termine di questa attaccò un colatoio pieno di detriti, ma smosse un grosso sasso che precipitò a valle. Così fu avvistato, ma ormai il pericolo non era più rappresentato dai suoi nemici, ma dalla montagna che stava scalando.
...un'aquila roteava immobile con le grandi ali spalancate facendosi sostenere dalla calda brezza di valle...
(disegno dell'autore)
Dal basso gli arrivarono le urla e gli improperi dei Blezi che si sentivano sfuggire dalle mani la loro preda, proprio nel momento in cui erano convinti di averla già afferrata e, soprattutto, si vedevano sfuggire quello che essa portava con se,
"Maledetto tu sia," gridava paonazzo Oto da Cares, "sta sicuro che adesso cadrai e ti daremo in pasto ai cani!"
E gli altri gli facevano coro: "Ladro, figlio di cane, ti prenderemo, la pagherai cara...".
Stenego adesso si sentiva al sicuro e si fermò un attimo a riprendere fiato,
"Ribaldinooo", urlò, " phuuu" e sputò verso valle.
Le pareti rimbombarono e l'eco moltiplicò lo sberleffo, "phuu... phuu... phuu...".
Si assicurò alla parete passando un braccio attorno ad un grosso ramo di mugo ed estrasse il corno dalla bisaccia. Fu subito preso da un senso di ammirazione figurandosi l'animale al quale era appartenuto ed un brivido gli percorse la schiena al pensiero che proprio in quei paraggi questo aveva trovato la morte. Ma fu solo un attimo, l'eccitazione dell'impresa che stava per compiere cancellò subito ogni timore. Guardò a valle e rincarò la dose,
"Questo lo consegnerò nelle mani del vescovo e vedrete che sarà lui a farvela pagare cara, preparate le vostre bitorzolute schiene ..... ed anche quello che c'è più in basso."
Ripose delicatamente il prezioso talismano nella bisaccia e riprese a salire a cuor leggero, mentre in basso gli altri schiumavano di rabbia.
"E bravo il mio vecchio", disse ad alta voce, "Non avrei mai pensato che fossero così utili le fole che racconta ai ragazzi." E, ripetendo mentalmente il racconto, si trovò nell'unico punto veramente difficile dell'intera ascensione, quello che aveva respinto molti di coloro che avevano tentato prima di lui. Era il passaggio chiave che egli non avrebbe mai indovinato, se non ne fosse stato a conoscenza, poiché dal punto dove lui si trovava, nessuno avrebbe potuto immaginare che, al termine di quella stretta cengia sospesa sull'orrido, dietro uno spigolo di roccia che ne impediva la vista, si aprisse un comodo colatoio attraverso il quale, senza più pericolo, si poteva accedere all'intaglio comunicante con l'opposto versante.
Con un ultimo sforzo, Stenego raggiunse la Forcolotta di Jon. Il suo urlo di battaglia echeggiò trionfante e, diffondendosi nella valle in mille echi, avvisò i Blezi che gli "auguri" che avevano indirizzato al fuggiasco erano stati vani.
"Signore Onnipotente Vi ringrazio!" sospirò, "Me la sono proprio vista brutta stavolta."
E dopo aver dato un'allegra fregatina al corno dei Blezi, con l'animo più lieto che si possa immaginare, iniziò a discendere l'opposto versante, scivolando veloce sul ghiaione fin sul fondo dell'ampia depressione detritica che giaceva ai piedi delle verticali, e stranamente stratificate, pareti del Castello dei Camosci.
"Non avrei mai immaginato di tornare così presto in questi paraggi," si disse pensando all'avventura di caccia che, alcuni giorni innanzi, aveva vissuto con Martino da Tovo e, sorridendo tra se, si diresse verso il laghetto.
Bevve avidamente di quell'acqua freschissima e quindi v'immerse il capo con gran voluttà sentendosi rinascere. Si sedette sull'erba e si lasciò scivolare piano all'indietro, rimanendo supino a braccia aperte a contemplare il cielo dove un'aquila roteava immobile con le grandi ali spalancate facendosi sostenere dalla calda brezza di valle. Rimase così per parecchio tempo, mentre i ricordi dell'avventura appena vissuta si accavallavano nella sua mente, finché un brontolio dello stomaco gli ricordò che non mangiava dal mattino del giorno precedente. Allora si risollevò e cercò di esaminare la situazione. Sarebbe potuto rientrare al paese ricalcando il percorso utilizzato per il ritorno dall'ultima caccia, ma era una cosa troppo prevedibile e non voleva correre rischi.
Pensò: "Li ho sottovalutati anche troppo, quei figli del diavolo!" ed optò per la discesa nella selvaggia Val di Jon, che, in caso di necessità, offriva un buon numero di ripari e nascondigli.
Beninteso, era cosa assolutamente impensabile che i Blezi avessero avuto l'ardire di seguirlo o, peggio ancora, di venire ad aspettarlo nel bel mezzo della Pieve del Banale, ma quando ci si è scottati una volta....
Per fortuna il sole era ancora alto ed i pastori della sottostante malga della villa d'Orsino gli usarono la carità di rifocillarlo, così, a prima sera era in vista della chiesa di S. Maria in quel di Thaono e, camminando ancor speditamente, nonostante le fatiche e le emozioni di quelle ultime ore, a notte inoltrata avvistò i fuochi del suo villaggio.
Il suo apparire sulla porta di casa ebbe, per tutti i presenti, l'effetto di un pugno nello stomaco.
Infatti, i compagni della malga, con Pietro e Martino in testa erano, da qualche ora, arrivati in paese con la mandria, o per meglio dire, con quel che rimaneva di essa e subito si erano recati ad avvisare la povera Alegra che aveva un aspetto da far pietà.
Tutti scattarono in piedi e corsero all'uscio. Fu un abbraccio generale.
Martino, commosso disse: "Giuro che disperavo di rivederti, vecchio testone... racconta... racconta...".
Senza parlare, Stenego fece un ampio gesto in circolo con il braccio destro e tutti si sedettero in silenzio. Avanzò al centro della stanza, affondò il braccio nella bisaccia e, guardando Martino fisso negli occhi, estrasse lentamente il corno dei Blezi.
Per un lungo istante tutti rimasero a bocca aperta a fissare, come ammaliati, l'oggetto che, alla luce del fuoco acceso nel camino, emetteva strani bagliori, quindi, come spinti da una molla, scattarono in piedi gridando all'unisono in un putiferio generale. Furono urla, esclamazioni, abbracci ed anche qualche lacrima.
Il danno subito dalla comunità era stato grande, dalle prime stime dei malgari superava certamente le mille libre veronesi, senza contare le nerbate ricevute dagli uomini che avevano avuto la possibilità di accennare una resistenza, la botta in testa di Martino e le ingiurie e le umiliazioni subite da tutti, ma quello che Stenego teneva in mano, era il simbolo della rivalsa che li ripagava moralmente del torto subito e la certezza del risarcimento materiale, assicurato dallo scambio del prezioso talismano.
E fu così che, grazie all'intelligenza e all'ardimento del coraggioso cacciatore, l'onore dell'intera Comunità di Stenico fu salvo.