I Maffei: baritina, quarzo e feldspato dal Trentino. Alberto Folgheraiter conversa con Ennio Lappi. Trasmissione del 2009 dai microfoni della Rai di Trento
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- Category: Ricordi preziosi
- Published on Wednesday, 21 October 2015 22:54
- Written by Ennio Lappi
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AF: Oggi parleremo dello sfruttamento industriale del sottosuolo del Trentino Occidentale da parte di una delle famiglie che, pur non avendo origini locali, ha avuto un ruolo di tutto rilievo nel panorama industriale trentino del secolo scorso, portando da noi un'industria che seppe trasformare il cuore delle montagne in risorse vitali per la nostra gente: la famiglia Maffei. Chi erano, da dove venivano e come sono arrivati in Trentino?
EL: I Maffei sono stati una delle famiglie più in vista del Trentino nella seconda metà del secolo scorso. Innanzitutto dobbiamo tratteggiare la figura di Carlo Maffei, il capostipite, figura che divenne quasi leggendaria nel Basso Chiese dove aveva una casa che frequentava spesso e dove era molto benvoluto.
Carlo Maffei (1879 – 1965) nacque a Casargo in Alta Valsassina nel 1879 da famiglia benestante che però ben presto, per una serie di disgraziate congiunture, si trovò in gravi ristrettezze economiche tanto che, giovanissimo non ancora tredicenne, fu costretto ad emigrare da solo in Argentina. Nel 1902, dopo un decennio di duro lavoro da emigrante, aveva già raggiunto una discreta condizione di vita e raggranellato un buon gruzzolo tanto che decise di concedersi un paio di mesi di sosta per tornare in patria a rivedere la madre e la famiglia. Giunto in paese trovò il fratello Giovanni in cattive condizioni di salute e fu costretto ad occuparsi dell'attività mineraria che questo aveva da poco avviata a Porto Ceresio sulla riva più meridionale della parte italiana del Lago di Lugano. Purtroppo Giovanni Maffei morì nell'ottobre di quello stesso anno e questo costrinse Carlo ad impegnarsi a fondo per evitare il fallimento della piccola azienda del fratello e per far ciò dovette metter mano al denaro che aveva portato con sé.
Però le cose non andavano affatto bene perché la barite estratta nella cava del defunto fratello oltre che scarsa, non era di buona qualità, ma fu in quel periodo che Carlo ebbe un colpo di fortuna, scoprendo quasi per caso un buon filone di solfato di bario sulle pendici del Monte Grumello che sovrasta l'abitato di Porto Ceresio. La barite del Grumello si rivelò di ottima qualità e parecchio redditizia essendo assai ricercata dall'industria delle vernici, settore al tempo in grande espansione
(fu il noto industriale Max Mayer il primo acquirente), e fu così che il nostro intraprendente giovanotto rinunciò per sempre all'idea di tornare in Argentina e fondò la Carlo Maffei e Compagni. Qui Carlo mise su famiglia sposando la vedova del fratello che gli darà tre figli Ottorino, Cesare e Italo.
Ma ben presto la miniera del Grumello divenne incapace di soddisfare la sempre crescente richiesta del settore delle vernici e ciò, nei primi anni del '900, spinse Carlo Maffei a cercare disperatamente un altro giacimento. La buona sorte, guidata dal suo innato spirito di iniziativa, lo favorì nel 1905 guidandolo sui monti del vicino Tirolo dove aveva avuto notizia della possibilità di trovare degli ammassi di barite e qui, sulla montagna a sera di Darzo, individuò subito il filone di Valcornera, quello giusto, che doveva fare la fortuna sua e della sua ditta.
AF: Cosa c'era di tanto prezioso a Valcornera?
EL: Il solfato di bario, altrimenti detto barite, trovato a Valcornera aveva una purezza mai riscontrata prima di allora e raggiungeva un grado di purezza tale che, per decenni, farà di Valcornera il più importante giacimento europeo. Il minerale, tramite una teleferica, veniva abbassato a Darzo e macinato a Ponte Caffaro.
Nel 1926 a Darzo, quindi il più vicino possibile alla miniera di Valcornera, iniziò la costruzione del primo nucleo dello stabilimento Maffei alimentato dall'energia di una propria centrale idroelettrica funzionante con l'acqua del Rio S. Barbara.
Da quell'epoca, grazie anche al vigore di forze nuove rappresentate dall'entrata in azienda dei tre figli di Carlo Maffei, Ottorino, Cesare e Italo, che affiancarono il padre appena terminati gli studi, lo stabilimento di Darzo crebbe di anno in anno, dotandosi di tutto quanto abbisognava alle varie lavorazioni del prodotto, da quando arrivava a valle fino allo stoccaggio. Divenne così il maggiore in Italia per potenza e capacità produttive tanto che alla fine degli anni quaranta raggiunse una produzione di 50 tonnellate giornaliere esportando in ben 28 nazioni in tutto il mondo.
Ma nella vicina Rendena si stava avviando una nuova ed interessante zona produttiva ed allora l'attenzione dei Maffei si rivolse al feldspato di Giustino.
AF: Ma non furono i Maffei gli scopritori delle potenzialità estrattive del territorio di Giustino, vero?
EL: Certamente no, i primi furono i vetrai, i Bormioli, Garuti e Venini, che abbandonarono l'attività prima del 1890, poi, dopo mezzo secolo, nel 1937 fu il dott. Pio De Angeli, un imprenditore minerario trentino che aveva diverse cave e miniere nel perginese e nel pinetano, che spinto dal desiderio di ampliare l'orizzonte operativo della propria azienda, sondò il territorio di Giustino e Massimeno alla ricerca di minerali economicamente estraibili, come muscovite, mica, allumite, leucite e feldspato. Alcuni anni più tardi, nell'estate del 1941, probabilmente a seguito della rinuncia di De Angeli, ecco apparire a Giustino le Officine Elettrochimiche Trentine, rappresentate dal direttore ing. Andrea Bonalda, le quali si appropriarono del permesso di ricerca intendendo sfruttare i giacimenti di quarzo dell'Alta Val Flanginech per alimentare i propri forni di Trento dove si producevano ferroleghe al silicio.
AF: Le Officine Elettrochimiche Trentine erano uno stabilimento di Campotrentino se non sbaglio, vero?
EL: Precisamente, era la denominazione sociale dello stabilimento di Campo Trentino comunemente conosciuto come "la Ferriera" che di notte era ben visibile per i bagliori prodotti dalle colate dei suoi altiforni.
Dai sondaggi e relative analisi fu accertato che si trattava di un felspato che, seppur leggermente inquinato da composti ferrosi, in talune zone, accanto ai normali contenuti di sodio, era particolarmente ricco di potassio e questo lo rendeva interessante per la molteplicità delle sue applicazioni specie nell'industria ceramica.
AF: Le OET pensavano magari di convertire lo stabilimento?
EL: No, non questo, l'obiettivo primario rimaneva sempre il quarzo ferroso per le leghe al silicio, però il feldspato che si prospettava in quel nuovo sito minerario rappresentava, quantomeno, un'interessante prospettiva industriale. Il giacimento individuato si presentava con notevolissimi affioramenti, tanto sulla destra orografica del Rio Flanginech che sulla sponda opposta in un'area di circa 115 ettari. Seppure con le intuibili difficoltà dovute al periodo bellico, i lavori nella miniera di Giustino iniziarono regolarmente e, nell'ambito del permesso di ricerca, si realizzarono le infrastrutture necessarie per la futura coltivazione, comprese le macine a palmenti, e si completarono sondaggi ed analisi che dettero risultati incoraggianti.
Nel contempo, essendo le O.E.T., necessariamente propense a prendere in considerazione più il quarzo che il feldspato, poiché in quel momento era ciò che necessitava per il proprio stabilimento, fu avviata la coltivazione del giacimento di quarzo già individuato più in alto.
AF: Il quarzo, come abbiamo detto, era necessario per gli altiforni della Ferriera, dove fu avviato lo scavo di questo minerale?
EL: Nel 1942 si aprì la cava di quarzo a cielo aperto in località Canale della Ragada che dette subito 60 quintali al giorno di materiale che veniva inviato a valle tramite teleferica senza alcuna frantumazione. La teleferica aveva la stazione di arrivo nel paese di Giustino, ora sede comunale.
A Ragada gli operai che durante il periodo bellico erano inquadrati nella Organisation Todt, un'organizzazione paramilitare tedesca che forniva operai, prigionieri o gente non abile all'arruolamento, per i più svariati lavori utili alle necessità di un paese in guerra. La Todt, poi Speer, operò a Giustino fino alla fine della guerra.
AF: Terminato il conflitto mondiale si ripresero subito i lavori, immagino ...
EL: Certamente, e qui si innesta la società di Darzo, rappresentata da Italo Maffei, il più giovane dei figli del fondatore, che fiutando sagacemente il lucroso affare che avrebbe realizzato, accettò di buon grado l'offerta delle O.E.T. di acquistare il minerale scavato nei lavori eseguiti nell'ambito del loro permesso di ricerca e così entrò nella gestione della ricerca mineraria di Giustino. Subito Italo Maffei, con astuta mossa, mise nel progetto considerevoli capitali, cosa che le O.E.T. non erano disposte ad accettare poiché a loro in quel momento interessava più il quarzo che il feldspato. La Maffei allora acquistò la quota delle O.E.T. e divenne proprietaria della cava di feldspato.
AF: E così la ferriera si disinteressò di Giustino?
EL: No, continuò a servirsi del quarzo ferroso scavato dalla ditta Gadotti fino alla fine degli anni '70. A Bruno Gadotti, un perito edile trentino che inizialmente si era associato con i Maffei e le O.E.T., ed alla sua impresa, le stesse O.E.T. affidarono la gestione del loro permesso minerario di scavo del quarzo necessario per le lavorazioni nella ferriera di Trento, materiale che fu ricavato prima a Ragada, poi a Movlina e quindi in Algone.
AF: I Maffei rimasero allora padroni esclusivi del feldspato di Giustino?
EL: Proprio così, nel 1947, la ditta Carlo Maffei e C. di Darzo diventò intestataria del permesso di ricerca di sali alcalini complessi (mica e feldspato) denominato "Giustino" e, localizzato il feldspato migliore, inizialmente impostò la cava su due gradoni, aumentandoli poi di anno in anno ottenendo un ottimo feldspato che veniva trasportato nello stabilimento di Darzo per la macinazione e destinato alla produzione di porcellane, vernici e smalti.
Alla base della cava, sulla strada in pieno centro abitato, oggi sede del municipio, sorgeva la stazione di arrivo della teleferica che abbassava a valle il minerale. Nello stesso edificio arrivava anche la teleferica di Ragada e dai bocchettoni situati nel muro a lato della strada camionabile della Val Rendena usciva sia il quarzo destinato alle O.E.T. di Trento che il feldspato che andava a Darzo. Finalmente, dopo un anno e mezzo di attesa, il 25 giugno 1951 arrivò la sospirata concessione mineraria che intestava alla Ditta Carlo Maffei e Compagni di Darzo di Storo i diritti di sfruttamento della miniera di feldspato di Giustino. La concessione aveva durata ventennale e si riferiva ad un'area della superficie complessiva di 81 ettari.
Risolta la questione più importante, la Maffei dette inizio alla costruzione a Trento, in via Maccani, di un nuovo impianto di macinazione per quarzo, barite e fluorina che a pieno regime avrebbe potuto raggiungere la potenzialità di 1,5 tonnellate all'ora e sarebbe servito per il minerale di Giustino, Meano e Roncegno.
Ma la cosa più ragguardevole fu l'inizio della coltivazione sotterranea. Infatti dal piazzale al piede del fronte di cava a quota 875 fu iniziata la prima galleria (n°1) che aveva lo scopo di esplorare in sotterraneo l'ammasso mineralizzato per determinarne potenza, consistenza e direzione. Questa galleria denominata "Livello Massimo" dal nome di uno dei figli di Italo Maffei, penetrò il giacimento per 27 metri, mentre il fronte di cava venne suddiviso in due gradoni e si continuò l'abbattimento del minerale lavorando a giorno con i martelli pneumatici.
AF: Allora dal 1952 si iniziò lo sfruttamento sotterraneo del giacimento?
EL: Precisamente, da quell'anno dopo il livello Massimo, fu un continuo progredire in sotterraneo.
In poche parole il sistema di coltivazione usato era quello delle camere a magazzino che consisteva nello scavare inizialmente un fornello, vale a dire un cunicolo verticale, al centro dell'ammasso che si voleva scavare. Il fornello centrale veniva quindi allargato fino alla dimensione voluta mediante cariche esplosive opportunamente calibrate ed il minerale veniva mano a mano spillato da sotto con una pala meccanica e caricato sui carrelli con i quali veniva portato all'aperto.
AF: Ed il complesso come era suddiviso?
EL: Praticamente, negli anni '60 la miniera era divisa secondo gli ammassi minerari della concessione che erano essenzialmente tre: il primo, sulla sinistra orografica del Rio Flanginech denominato "S. Barbara", coltivato a mezzo del cantiere detto "dei Compressori", il secondo, localizzato sulla destra orografica del torrente, fu battezzato "Armani" ed il terzo, posto a meridione verso il paese di Massimeno fu chiamato appunto "Massimeno". Il minerale scavato veniva portato a cielo aperto tramite Decauville e scaricato nell'impianto di lavorazione che sorgeva subito all'esterno dell'imbocco della miniera
AF: Gli anni sessanta per la Maffei furono gli anni migliori?
EL: Gli anni sessanta furono anni assai produttivi per la miniera di Giustino tanto che in dieci anni si raddoppiò la produzione complessiva e poi si decise di passare alla coltivazione a cielo aperto, in primo luogo, perché in galleria non si poteva sfruttare che il 40 % del giacimento o forse meno, poi incideva il tempo speso nella ricerca delle zone produttive e nella realizzazione delle indispensabili opere di sicurezza, non ultimo vi era il pericolo sempre in agguato di crolli e la possibilità di contrarre malattie come la temuta silicosi.
Si iniziò così lo scoperchiamento di quella che verrà chiamata Cava Armani, sopra il livello S. Carlo e l'anno successivo, il 1965, fu l'anno dell'abbandono delle coltivazioni in galleria, ma fu anche l'anno in cui il fondatore, il vecchio leader, il mitico "Barba" Carlo Maffei se ne andò da questa terra alla invidiabile età di 86 anni dopo aver vissuto intensamente tutta una vita di grandi lotte, ma anche di grandi successi.
In miniera quell'anno si lavorò esclusivamente a cielo aperto e per la Maffei fu anche l'anno dei primi grattacapi, delle prime avvisaglie del cambiamento nei rapporti con gli abitanti del paese che fino a quel punto avevano considerato la miniera come provvidenziale mezzo per evitare l'emigrazione.
AF: Così i rendenesi incominciavano a considerare anche i danni socio-ambientali ...
EL: Ecco, il benessere che stava raggiungendo la valle, anche per merito del turismo estivo ed invernale, portò i rendenesi a considerare il retro della medaglia cioè: il fastidio delle polveri, lo sfregio al paesaggio di quell'ampio squarcio nel verde, il rumore degli scoppi delle volate e si avanzò pure il sospetto che le vibrazioni provocate da queste potessero causare danni all'abitato. Insomma, le prime lamentele. La società cercò di venire incontro alle richieste, ma in sostanza si fece ben poco. Era la dura legge del profitto. Anzi, dopo l'alluvione del 1966, si approfittò per sistemare la miniera e nel 1967 venne inaugurato un nuovo grande e modernissimo capannone, ospitante nuove e moderne attrezzature per la frantumazione, lavaggio, cernita e stoccaggio del minerale.
AF: E il materiale inerte dove finiva?
EL: Con l'aumento della produzione sorse immediatamente il problema dello smaltimento dello sterile e proprio nei terreni limitrofi alla proprietà di Almo Armani fu aperta la prima discarica esterna di inerti provenienti dalla miniera che accolse migliaia di tonnellate di materiale di scarto riempiendo il grande avvallamento del terreno fino alla Sarca. Completato il riempimento della vasta depressione a nord della confluenza del Flanginech nella Sarca, mentre si procedeva ai prescritti e concordati lavori di ripristino e rinverdimento del terreno superficiale, si iniziò a scaricare nella zona a sud del torrente che si esaurirà nel 1978 e contemporaneamente, si aprirà una nuova discarica nella zona tra Bocenago, Strembo e Caderzone. A partire dal 1979, quindi, gli inerti di cava verranno stoccati in quella zona e formeranno un grande terrazzamento sulla sponda sinistra della Sarca in territorio comunale di Bocenago, lungo quasi 2 chilometri, largo circa 100 metri e con uno spessore di 30. Graduali successive opere di stabilizzazione e rinverdimento trasformeranno l'ex discarica Maffei in una ridente piana che oggi ospita un esclusivo campo da golf.
Nel 1971 scadeva la concessione ventennale, ma la Giunta Regionale accordò il rinnovo della concessione solo per 20 anni. Inoltre il minerale che usciva dalla cava aveva subito un notevole scadimento di qualità a causa degli impedimenti imposti dalle autorità nella ricerca di nuovi banchi produttivi, ma nel 1975 avvenne un fatto che fu estremamente deleterio tanto per Italo Maffei che per la società.
AF: Fu un fatto che turbò molto la Rendena e tutto il Trentino...
EL: Certamente, la sera del 30 maggio 1975 Italo Maffei in compagnia della segretaria e di due amici, stava rientrando in auto alla propria residenza estiva di Capo Coda Cavallo, nel comune di S. Teodoro, qualche decina di chilometri a sud di Olbia.
Maffei era alla guida di una Fiat 124 e ritornava in villa dopo essersi recato all'aeroporto di Olbia ad accogliere gli amici Rino e Liliana Tamanini che aveva invitato a trascorrere un periodo di vacanza nella sua villa al mare. Lo accompagnava la segretaria Cecilia Pedrini. In un tratto di strada poco frequentato tra Olbia e S. Teodoro, la vettura di Maffei fu fermata da quattro uomini armati e mascherati che sotto la minaccia di mitra e pistole fecero scendere gli occupanti. Riconosciuto il loro obiettivo, lo fecero risalire nella propria macchina, alla guida della quale si era posto uno dei malviventi e, mentre gli altri due tenevano l'industriale sotto la minaccia delle armi, si dileguarono velocemente.
Il rapimento durò 56 giorni e segnò per sempre l'industriale già minato da un enfisema polmonare. Maffei si disse disposto a morire piuttosto che versare il miliardo e 200 milioni richiesti, cosa che avrebbe significato la chiusura della sua azienda, ma, per merito soprattutto dell'amico ed ex dipendente geom. Andrea Olivieri, il maddalenino che si offerse in garanzia per il rilascio, tutto si risolse con il pagamento di un riscatto di 800 milioni, parte dei quali recuperati ad uno dei rapitori ucciso dopo un conflitto a fuoco con la polizia.
AF: E Italo Maffei tornò al lavoro ?
EL: I giornali trentini riportarono con rilievo la notizia del ritorno di Italo Maffei in Trentino e delle dimostrazioni di affetto che gli riservarono a Darzo e lui, provato nel fisico, ma temprato nel carattere, tornò al lavoro di sempre. Lo attendeva però un periodo non facile, la cava Armani non dava minerale della qualità che ci si aspettava e, malgrado un attento miscelamento con quello degli altri cantieri, il prodotto finito era spesso al di sotto degli standard usuali e questo provocava frequenti proteste da parte delle ditte acquirenti. Inoltre si dovette affrontare una dura causa con l'Enel per i danni causati dalle esplosioni al canale di gronda dell'acqua che andava al lago di Molveno, causa che portò alla sospensione dei lavori. I 200 operai della Maffei sarebbero rimasti senza lavoro, ma la cosa avrebbe avuto un'enorme ripercussione e non solo in Italia, dal momento che molte delle grandi industrie che producevano sanitari lavoravano con il feldspato di Giustino. L'Enel allora decise di ovviare alla cosa costruendo a proprie spese un by-pass della galleria di gronda che passava a conveniente distanza dalla cava, 400 metri più all'interno.
AF: Allora l'industria riprese fiato?
EL: Beh sì, per qualche tempo si lavorò con buona resa, ma ben presto i problemi ripresero, soprattutto provocati dalla comune presa di coscienza dei problemi ambientali che erano ormai sotto gli occhi di tutti specie dal punto di vista della vocazione turistica della zona. Così, sul finire degli anni '80, si dette mano alle opere di ripristino ambientale sul lato orientale della miniera per reinserire armonicamente nell'ambiente circostante le parti del grande squarcio nella montagna visibili dal fondovalle. Con interventi di idrosemina e piantatura di essenze arbustive compatibili con l'ambiente circostante, si sistemarono i pendii a monte intervenendo nei punti rocciosi con riporti di terriccio e posa di apposite sacche vegetative.
Nel gennaio 1990, a quasi ottant'anni, se ne andò anche il dottor Italo, così era famigliarmente chiamato dai suoi dipendenti Italo Maffei, dopo una vita di lavoro vissuta intensamente sempre sulla breccia, pur tra successi luminosi e periodi bui, affrontati con tenacia e coraggio. Scompariva così un grande dell'industria trentina che non si era fatto da solo, ma aveva saputo sfruttare assai bene i talenti che il padre gli aveva lasciato seguendone le orme con sagacia, accortezza e lucida fermezza, qualità che univa alla non comune capacità decisionale da vero capitano d'industria.
AF: Dopo Italo Maffei cosa avvenne della miniera?
EL: Agli inizi degli anni novanta, mediante precise relazioni e perizie si fece presente che la vita della miniera sarebbe stata garantita solamente se fosse stata autorizzata la ripresa della coltivazione in sotterraneo del versante est del giacimento, al di sotto e al di là del canale Enel, ma questo venne escluso a priori. Allora la società fece elaborare un progetto di chiusura della miniera che avrebbe dovuto avvenire per gradi. Cava Armani risultò commercialmente non più sfruttabile perciò fu abbandonata e si lavorò esclusivamente sul versante di S. Giovanni.
Ma ora sorgeva un nuovo problema, non si trovarono più siti disposti ad accogliere il materiale di scarto. All'inizio del 1993 fu allora elaborato un nuovo progetto che prevedeva di stoccare nella Cava Armani tutto il materiale di scarto delle coltivazioni in atto, ottenendo così la risoluzione del problema dello smaltimento dello sterile, del materiale morenico e dei residui di stabilimento eseguendo nel contempo tutte le opere necessarie al ripristino ambientale. Quindi si tamponarono le gallerie che collegavano l'ammasso S. Carlo con il livello Italo Maffei e si cominciò a riempire il tutto con lo sterile ed i residui di stabilimento, incominciando dal grande fornello centrale. Man mano che il sito si riempiva veniva ricoperto con materiale a bassa permeabilità e quindi si procedeva al rinverdimento.
AF: In pratica si scavava da una parte e si stoccava il materiale di scarto dall'altra?
EL: Sì, in pratica si scavava il minerale ricco da un lato ammassando lo sterile sul lato opposto e viceversa in modo che tutto il materiale di scarto rimanesse all'interno della cava e contribuisse al riempimento che era stato imposto in fase di concessione. Contemporaneamente a tutti questi lavori si procedette a tutte quelle operazioni necessarie al ripristino ambientale dell'intero vaso della miniera compreso il rinverdimento con miscele erbose e opportuni impianti arborei.
Successivamente, mentre la produzione continuava con il minerale delle ultime parti di giacimento disponibili, si dette mano al riempimento usando lo sterile di cava e altro materiale inerte proveniente da fuori. L'impianto di frantumazione invece funzionò ancora per un paio d'anni al solo scopo di consumare le riserve di tout venant stoccate in precedenza e chiuse definitivamente il 31 dicembre 2006.